L’ultima volta è stata il 9 febbraio. Poco più di due mesi fa. Una domenica prima di cena. Il derby veneto al Taliercio dopo non so più quanti lustri: Venezia contro Treviso. Nel vecchio palasport che chissà se mai rivedremo ancora così pieno. Pieno come un uovo di gallina e non di cioccolato. Comunque senza sorpresa: 79-73 per la Reyer. Che i giornali locali dicevano fosse in crisi nera. Con Stefano Tonut malato immaginario e in polemica con il suo allenatore. Julian Stone, perennemente in odore di taglio, anche se con un altro anno di contratto, è invece l’mvp del match: quello che consegna ad Austin Daye le chiavi della vittoria in volata. Altri tempi: nessuno sapeva niente del coronavirus. O quasi. E comunque non era un problema nostro, ma dei cinesi. Come dire, cavoli loro. Anche con i greci allo sfascio nel 2009 facemmo l’identica cosa: cioè spallucce, magna e bevi, e non ci pensare. Che tanto ci sono l’Unione europea e Angela Merkel. Altro che stessa faccia, stessa razza. Imperava il Berlusconi IV con i soliti noti: Daniela Santanché, Guido Bertolaso, Renato Brunetta, Mara Carfagna, Ignazio La Russa e Giorgia Meloni, ministro della Gioventù. Quale? Quella del Fronte col saluto fascista e il pugno di ferro? La notte prima Diodato aveva vinto il 70esimo Festival di Sanremo e la notte seguente Renée Zellweger in Judy (Garland) l’Oscar di Hollywood. Con un bel salto (6 metri e 17), anche se con l’asta, Armand Duplantis, ventenne svedese d’immenso talento nato in Louisiana, aveva stabilito il record del mondo che solo dieci giorni dopo avrebbe ancora migliorato di un altro centimetro. Al mattino la nostra campionessa olimpica Sofia Goggia era volata in superG nelle reti dell’Inferno del Kandahar e si era rotta un braccio, il sinistro: stagione finita. E sfigatissima. Mentre alla sera l’Inter, sotto di due gol, avrebbe rimontato (4-2) il Milan e raggiunto la Juve, sconfitta il sabato a Verona, in testa alla classifica. Esultarono i giornali: “EPICINTER” titolò a caratteri cubitali la Gazzetta di Urbano Cairo e “Ribaltone scudetto” osò sbilanciarsi la Repubblica di Carlo Verdelli, il più nerazzurro dei direttori della terra assieme all’insopportabile Mitraglietta Mentana, sottolineando anche come anche il Conte Antonio avesse finalmente smesso di nascondersi: “Adesso sì, possiamo sognare”. Cosa? Un triplete di Coppa Fragola, Smeralda e del Nonno? Ora magari avete capito perché ho le scatole piene di ritagli che a volte servono, come in questo caso, per inquadrare il momento (storico) in cui si svolsero i fatti e capire il senso di questa foto del vostro scriba (felice) tra Artiglio Caja e Frank Vitucci in quella domenica di sole del 9 febbraio. Artiglio avrebbe dovuto giocare con la Virtus, ma la Segafredo era impegnata a Tenerife nell’Intercontinentale che avrebbe dovuto stravincere secondo Luca Baraldi e che al contrario perse senza vedere mai la luce nemmeno in fondo al tunnel. A mezzogiorno Frank invece aveva fatto un sol boccone del Prosciutto Carpegna e da Pesaro aveva raggiunto Mestre in poco più di tre ore. Non avrei insomma potuto star meglio insieme ai miei due allenatori preferiti mentre sul parquet si sfidavano gli altri due che sono stabilmente in cima alla mia hit parade: Walter Ray-ban De Raffaele e Max Chef Menetti riconfermati per altri tre anni. E qui ora, come promesso da tempo, dovrei dare le pagelle di fine stagione assegnando al livornese di Ovosodo il titolo d’allenatore dell’anno e alla squadra del veneziano di Cannaregio l’Oscar del miglior basket giocato nel 2019-2020. Anche se proprio oggi, leggendo un’intervista su Leggo al mio amato (ex) cittì, mi è venuto il forte dubbio d’essere stato un filino affrettato nei giudizi. Sandro Gamba ha infatti affermato che sarebbe stata una stagione di grandi rivincite per Milano. Quale? Sì proprio per l’Olimpia di Panta-panta Leon-leon Dell’Orco cattivo che “aggiustando qualcosina, sarebbe arrivata ai playoff al meglio e sarebbe stata la favorita per vincere lo scudetto”. In effetti non avevo nemmeno io condiviso il severo 5 che Gesù Cripto, alias Oscar Eleni, aveva appioppato all’Armata “milionaria” del suo Messi(n)a e dell’“abilissimo” (forse ironico? non l’ho ben capito) Stavropoulos sostenendo che aveva “una difesa finta e un attacco spesso inguardabile da 70 punti scarsi di media”. Per mettere allora d’accordo Gamba e Eleni ho già deciso di dare comunque 6 in pagella all’Armani e addirittura 6 e mezzo a Ettore se saprà dire no all’uomo che ha una sola parola data e che rivuole a tutti i costi Bruno Cerella a Milano anche per le sfilate di moda del prossimo autunno. Se ne può parlare. Parliamone, ma un’altra volta. Adesso vi anticipo solo che, fatti due conti, l’Armani dell’italo-americano di Catania in questa stagione ha vinto ben 27 partite perdendone solo 24 e quindi la sufficienza se la merita comunque nonostante l’Happy Casa di Brindisi con un decimo del budget delle scarpette rosse sia riuscita a fare persino meglio. A sconvolgere tutti i miei piani di battaglia non sono state tanto le centinaia di telefonate d’auguri tra Pasqua e Pasquetta, la più straordinaria delle quali è stata quella del magnifico Pero Skansi dalla Slovenia, di cui anche vi dirò nel fine settimana, o le tre ore di video-trasmissione di martedì sera con il più grande di tutti i telecronisti, Sergio Tavcar, che sono volate via come il falco pellegrino che, se non lo sapete, è l’uccello più veloce del pianeta, ma perché sono venuto a sapere a metà pomeriggio dopo la pennichella d’un incontro ovviamente virtuale, e ora non più segreto, tra i due presidente di Lega del nostro basket, Umberto Gandini per la serie A e Pietro Basciano per l’A2 (e pure la serie B). E non venitemi a raccontare che lo sapevate come ha fatto Mamma Rosa con il mercato delle “Sette conferme di Milano” o il Carlino con Alessandro Dalla Salda che porta un “Poker di nuovi soci per il patron Landi a Reggio Emilia” perché erano già uscite sul mio blog molto prima delle feste pasquali. Né venitemi a dire che dall’aria fritta e rifritta di Mario Canfora (C10H16O) sul “Basket che verrà” avete trovato mezza notizia e ve ne spiego subito la ragione: per una volta Giannino Petrucci non gli aveva passato nessuna velina e il poveretto della Gazzetta ha dovuto arrampicarsi disperato con le unghie sugli specchi. Stavolta infatti né Giannino-1, che vorrebbe una massima serie a 14 squadre come è nei desideri (irrealizzabili) di Milano, né Giannino-2, che auspicava un campionato a 16 nel caso in cui Pesaro si fosse auto-retrocessa, avrebbero comunque accontentato l’amico Stefano Sardara che vuole a tutti i costi togliersi dalle pesti Torino che per lui in A2 è solo un peso e un costo elevato mentre in serie A avrebbe già trovato l’acquirente al quale scaricare la patata bollente per quattro soldi o nemmeno. Francamente facevo fatica a capire perché Pesaro dovesse rinunciare alla serie A quando Ario Costa ammette che la sua società non naviga certo nell’oro, come del resto una buona metà delle su consorelle, ma anche giura di non avere un euro di debiti, e qui gli credo, al contrario di più di qualche altro club anche d’alta classifica che invece si salva dietro al paravento dei diritti d’immagine che in verità non sono altro che un modo elegante per evadere le tasse se applicati oltre il cinquanta per cento sui compensi dovuti a tecnici e giocatori. Insomma, se non lo volete chiamare nero di Siena, l’unica che ha pagato in quel mare di seppie, chiamatelo ipocritamente pure grigio cielo di Londra, ma non pensate che sia un pollo che si beve questo imbroglio bello e buono come quelli della Comtec, la commissione di controllo economico-fiscale, che credono ancora che i bambini li portino le cicogne e li depositino sotto le foglie di cavolo. Così come sono anche convinto che Umberto Gandini, non appena si renderà conto di dove è capitato e con chi ha a che fare, imporrà delle regole molto più rigide che varranno per tutti eguali, ma per il momento bisogna dargli tempo di guardarsi intorno e intanto accontentarsi che la prossima serie A non inizi almeno a porte chiuse, cioè purtroppo non prima di dicembre, e abbia al via un numero pari di squadre. Non diciotto quindi, perché Pallino Sardara non sarebbe comunque appagato, ma venti con i ripescaggi di Verona, che ha le migliori carte da sbattere sul tavolo, più Ravenna e proprio Torino, cioè le prime classificate di ciascun girone di A2 al termine della regular season. Così Forlì e Udine non avrebbero chances in caso d’un eventuale ricorso, né men che meno Napoli che solo il concittadino Canfora poteva sognare di rivedere in chissà quale film nella massima categoria del nostro basket. E’ ovvio che un campionato a venti squadre andrebbe di traverso a Milano e forse anche alla Virtus e alla Reyer impegnate nelle coppe europee che contano, ma non se venissero divise, come pare, in due gruppi di dieci: uno a est e uno a ovest. A est ipotizzo le cinque trivenete più le due bolognesi più Ravenna, Pesaro e Brindisi. Mentre a ovest vi sarà una sorta di Torneo Lombardia più Torino, Reggio Emilia, Pistoia, Roma e Sassari. I due gironi, ad occhio e croce, mi sono anche venuti abbastanza equilibrati. E comunque le ultime due di ogni gruppo retrocederebbero in A2 e le altre sedici s’incrocerebbero nei playoff al meglio delle tre o delle cinque partite. Ci siamo? A domani finalmente con le pagelle. Sperando che lunedì aprano nel frattempo la libreria in centro che devo ordinare un dizionario dei sinonimi e dei contrari da regalare a Luca Zaia così impara che aprire e chiudere sono due verbi contrari e non sinonimi. O forse mi sbaglio?