Che ieri fosse domenica, la sesta di coprifuoco da Covid-19, non me ne ero assolutamente accorto sino a quando la Tigre non mi ha ricordato che ieri era la Pasqua ortodossa. La quale, senza scomodare l’equinozio o la prima luna piena di primavera, cade una settimana dopo quella cattolica e comunque sicuramente di domenica. Del resto da più di quaranta giorni non metto il naso fuori dall’uscio di casa e non vedo nessun altro al di fuori proprio della Tigre. La quale mi ha giurato che butterà giù dalla finestra me e tutta la pila di giornali, che ormai toccano il soffitto, se entro domani non metto un po’ d’ordine nella mia prigione. Da dove evado solo per il pranzo e la cena o logicamente per andare in bagno. Oggi è lunedì 20 aprile, Sant’Adalgisa, e da nove mesi tondi tondi Marx Sarri è l’allenatore della Juventus. Tenetelo bene a mente perché dopo tornerò senz’altro sull’argomento. Mentre adesso devo ancora sistemare un paio di cosette che mi hanno fatto venire i nervi. Eppure avevo rispettato il secondo venerdì 16+1 di questo anno bisesto e funesto, nonché assassino, chiudendomi in casa, e sin qui non mi era costato niente, ma soprattutto tenendomi ben lontano dal p.c. che mi era già andato a ramengo il 16+1 dello scorso gennaio, cioè proprio nel primo venerdì maledetto del 2020 nel quale Pietruzzo Anastasi, affetto da Sla, si era lasciato morire. Stavo scrivendo di lui, come ieri, e di quel fine primavera del ‘68 che non potrò mai dimenticare perché non dormivo la notte per preparare gli esami di maturità e l’unica distrazione erano, tra i libri di greco e di latino, gli Europei di calcio ancora in bianco e nero con la telecronaca di Nando Martellini che si alternava a Nicolò Carosio. A Napoli in semifinale contro l’Unione sovietica già all’Italia di Ferruccio Valcareggi era andata di stralusso: vinse infatti la partita non ai calci di rigore, ma a testa e croce. E pure nella prima finale con la Jugoslavia strappò l’1-1 per i capelli con un gol di Domenghini solo all’80’. Per questo quando mi dicono che Righetto Sacchi aveva culo rispondo ogni volta: perché non vi ricordate Zio Uccio. Il quale per la verità ebbe il merito o il coraggio, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, di cambiare cinque undicesimi della squadra azzurra nella ripetizione della finale che si giocò quarantott’ore dopo sempre all’Olimpico di Roma e vinta per 2-0 con reti di Gigi Riva, schierato a sorpresa al posto di Pierino Prati, e di Pietro Anastasi che l’avvocato Gianni Agnelli aveva appena acquistato dal Varese del commenda Giovanni Borghi per la cifra record di 650 milioni di lire. Strappandolo, tanto per cambiare, all’Inter che da Angelo Moratti stava per passare nelle mani di Ivanoe Fraizzoli. Più una fornitura di compressori di frigoriferi per l’Ignis da parte della Fiat. Avevo un debole per Pietro ‘u turcu, come lo chiamavano a Catania, quando ancora sedicenne in serie D nella Massiminiana di Angelo Massimino segnava gol a grappoli. Era svelto, bravo, agile, timido, buono. Destro e sinistro. Un falso nueve ante litteram, come si definì un giorno Pietruzzo. Questo avevo riscritto ieri quando, di nuovo, ho perso il pezzo che avevo quasi finito perché all’improvviso, e non per via di un temporale, è saltata la luce e non avevo da stupido salvato l’articolo. Ora non c’è niente di peggio per un pennivendolo che tornare per la terza volta sui propri passi, ma sono cocciuto più di un mulo e poi comunque il prossimo venerdì 16+1, che non so mai quanto faccia, cadrà a luglio. Quando magari mi lasceranno (forse) anche finalmente uscire in strada e scappare per prendere un volo per Napoli. Dove ho un paio d’amici che saranno felici d’ospitarmi. Sempre che nel frattempo Vincenzo De Luca, il governatore del Granducato di Campania che mi è troppo simpatico, non abbia già chiuso i confini ai veneti e Dio solo sa quanto farebbe bene. Se lui infatti ha paura del contagio, io ne ho di più degli ignoranti che nella mia regione spopolano e sono leghisti uno su due e rivoteranno per la terza volta Luca Zaia, il vice e poi successore del pregiudicato Galan, che ora fa lo spaccone (“Il lockdown non esiste più in Veneto”) gustando con Alda Vanzan un sushi di topi cinesi o uno spiedino di coscette di gatto vicentino. Il coprifuoco non ha comunque fatto male a tutti. Anzi. Massimo Fini, nobile firma del mio Giorno, ha scritto per esempio un articolo lucidissimo e illuminante sul Fatto dal titolo “Gli anziani sono i nuovi perseguitati” che vi consiglio caldamente d’andare a cercare e di leggere soprattutto se avete più di 65-70 anni e quindi siete, come me e lui, direttamente interessati. E comunque, se non lo troverete, ditemelo che magari domani provvederò a farvelo avere. Domani è martedì 21, Sant’Anselmo col chiodo sull’elmo, e per la verità ho già anche un piccolo conto in sospeso con un longobardo che, non sapendo duellare e difendersi, insulta per farsi forte con gli amici e poi si nasconde nella cripta di San Sepolcro a Milano o nel Serengeti tanzaniano tra bestie selvagge che scappano quando nella savana incontrano il leone non meno vanitoso di lui. Dalla scuola di scherma di Mestre del magnifico compianto maestro Livio Di Rosa sono nati campioni olimpici e mondiali come Fabio Dal Zotto, Dorina Vaccaroni, Andrea Borella e sua moglie Francesca Bortolozzi, Mauro Numa, Andrea Cipressa e mi scuso se me ne sono dimenticato ancora qualcuno. Quindi scelga pure l’arma: non indietreggio. Parata e risposta. Il fioretto o, meglio, la sciabola. Basta che non sia la spada. Perché qui gladio ferit gladio perit (dal Vangelo secondo Matteo). Dalla quarantena è uscito alla grande anche Marx Sarri che ci avrà anche impiegato nove mesi per capire quale squadra sta allenando e per sentirsi finalmente un gobbo, ma almeno da qui in avanti mi va di sperare che nessuno gli debba più spiegare quanto i beceri di tutti i colori e di tutte le razze riescano in Italia ad odiare la nostra Signora. Io lo compresi che avevo dieci anni quando mio padre mi portò all’Appiani per vedere Padova-Juventus. Ancora ricordo la formazione di Carletto Parola: Mattrel, Castano, Sarti, Emoli, Cervato, Colombo; Stacchini, Boniperti, Charles, Sivori, Stivanello. Ovviamente il mio idolo era El Cabezon con i calzettoni arrotolati intorno alle caviglie. Con il quale mai avrei immaginato, quattro cinque lustri dopo, di scrivere ogni lunedì sul Giorno una rubrica sulla serie A che lui mi dettava a braccio e che io gli curavo con tutto l’amore di questo mondo. Ebbene i biancoscudati di Nereo Rocco, il Paron, persero quella partita 4-0, ma io non vidi Sivori calciare all’88’ il rigore del quarto gol e Toni Pin tuffarsi dall’altra parte per poi rincorrerlo sin quasi a metà campo con il pallone in mano mentre Omar gli spiegava: “Te l’avevo detto de buttarte alla mia sinistra, non alla tua”. Perché mio padre mi aveva già portato via all’inizio del secondo tempo prima di baruffare con quel ciccione che in tribuna aveva cominciato ad offendere Sivori sin dal fischio d’inizio e aveva continuato a farlo ogni qual volta il fuoriclasse argentino accarezzava la palla. E io piangevo di rabbia. E mio padre non poteva sopportarlo. Anche se tifava per il Padova. “Io sono stato fischiato a Napoli dove sono nato e dove ho dato tutto me stesso”, ha confessato alla tivù della Juve. “E, se non ho vinto, è perché sono scarso e non perché non mi sono impegnato sino in fondo”. Come vi avevo preannunciato, lo stop forzato a Sarri ha fatto veramente bene. “A Torino i supporter della Fiorentina hanno insultato mia madre e questo mi ha fatto capire quanto odio esista nei confronti della Juve”. Chi l’avrebbe mai detto? Non certo lui quando era seduto sull’altra sponda. “Se diventi gobbo è anche per una ragione molto semplice: sei sempre attaccato dall’esterno. Noi siamo quelli sempre favoriti dalla classe arbitrale, poi guardi i numeri e capisci che vanno in tutt’altra direzione”. Quale? Provate ad indovinare: non è difficile. Che intanto spiego al mio Marx di Figline perché ci chiamano gobbi. Non perché siamo brutti, come sbraitano gli abominevoli ultras della curva del Toro nella foto, né perché siamo fortunati, come raccontano i rassegnati intertristi, ma perché a partire dal campionato 1956-57 i bianconeri usavano una maglia che era più una casacca con il collo a vu che si gonfiava sulla schiena quando anche Sivori, ma soprattutto Gianfranco Leoncini correvano contro vento. E contro tutti. Come sempre.