Dopo due giornate di campionato e due trionfi a spese di Cantù e Pesaro, in casa di Cenerentola, già Gianmarco Pozzecco era stato proclamato a furor di stampa nazionale l’allenatore dell’anno di grazia 2015. Sì, avete letto bene: duemilaequindici. Dindondan Peterson mi aveva quasi quasi convinto: “Non ci crederai, ma questo è bravo sul serio”. E si era scomodato persino Walterino Fuochi su Repubblica: “Genio e follia insegna il basket libero”. Quale? Quello che, se non tiri tu, tiro io? O di qualche birra in più nel pullman se torni a casa vincitore? Il solito Poz insomma. Che, quando vince, è tutto merito suo. E, quando perde, è invece tutta colpa degli altri. Peccato che un mese dopo lo score di Varese dica: due vittorie e quattro sconfitte di fila. Una veramente dopo tre supplementari con Reggio Emilia e un’altra ad un secondo dall’overtime a Venezia: tripla di Phil Goss. E una quinta probabilmente in arrivo domenica con Milano. Di modo che adesso c’è già qualcuno che gira per Masnago con in pugno lo scalpo del Poz che si era fatto tagliare i capelli dai suoi giocatori dopo il successo nel derby con la squadra di Sacripantibus. Il Cecco Vescovi è furioso, ma non ci sono i soldi per cambiare il coach. Semmai si compra un americano o si allunga la panchina. Mentre la Gazzetta, che solo trenta giorni fa lo avrebbe nominato anche allenatore del XXI secolo, al massimo ora lo incorona “re del web” e lo prende pure per il cesto. Siamo alle solite: ci piace esagerare, altrimenti non saremmo italiani. Tutti stipati come sardine sul carro dei boriosi o nel gregge dei pecoroni. Dal quale ovviamente prendo subito le distanze dandomela a gambe. Nauseato dal vostro modo di correre sempre a favore di vento e mai a fari spenti nella notte. Anche a rischio di prendere qualche tranvata sui denti e di non beccare mai un premio. Io m’accontenterei anche del pomodorino d’argento, ma è inutile che m’illuda. Per me saranno sempre e solo pietre, qualsiasi cosa faccia, come cantava lo scapigliato e mitico Antoine. E allora tanto vale essere cattivi. E a volte anche tremendi. Ma non con il Poz che, se non l’avete ancora capito, ve lo suggerisco io: è l’ultima ciambella di salvataggio alla quale dobbiamo e possiamo aggrapparci se non vogliamo affogare in un mare di lacrime. E allora lasciamolo sparare anche cazzate. “Alla stazione di Roma tutto il mio staff era preoccupato che stessi ben lontano dai binari”. O come disse a Walterino: “Non temo il casinista, ma il falso. E comunque per me il basket è un gioco e non sarà mai un carcere”. Almeno lui sarà ascoltato anche da qualcuno che non raccoglie rape nell’arido orticello della nostra pallacanestro e parla solo di pick and roll e di blind pig o di lavoro che premia e di politica dei piccoli passi. Che poi Gianmarco Pozzecco sia un buon allenatore forse anche no. Ma potrebbe sempre diventarlo, glielo auguro, se solo la smettesse d’angosciarsi e di pensare alla partita della domenica, vinta o persa, non importa, ventiquattr’ore su ventiquattro. Senza la notte chiudere occhio. E se si facesse affiancare da un buon vice. Per esempio Artiglio Caja, allenatore dell’anno ’96. Come fece Pianigiani con SottoBanchi a Siena. O fa Recalcati a Venezia con De Raffaele che sarà il prossimo doge della Reyer. Dividendo i compiti: lui disegna gli schemi, io motivo gli uomini. Quanto al premio per l’allenatore dell’anno 2015, per favore non meniamola sino alla fine della stagione regolare e diamolo subito a Carlo Recalcati. Dicono più fortunato che bravo, ma non sempre. Che in verità già se lo stramerita non tanto per il primo posto in classifica che nessuno gli toglierà né prima di Natale né al termine del girone d’andata, accetto scommesse, ma perché ha resistito alla tentazione di salire in macchina e tornare a Cantù, dove ha casa e famiglia, anche dopo una partita vinta proprio con la Varese del Poz ma che non era piaciuta al presidente. Dovreste in effetti provare voi a convivere con Fassotuttomi e il Pesciolino rosso e poi venite a dirmi se è facile o se sareste piuttosto tentati di mandare tutti a remengo come si dice in laguna. Tra barche che affondano, la marea che sale e scende, tra gente che sino all’altro giorno gridava gol ad ogni canestro e che adesso vorrebbe spiegarci il basket al video o con la lavagnetta. Come faceva l’anno scorso Brugnaro col povero Markowski seduto sulla seggiola ad ascoltarlo mescolato ai giocatori oro granata che lo guardavano più sgomenti che attenti.