Sono molto preoccupato, e come me Studio Aperto, per il rinoceronte bianco e la sua specie in via d’estinzione. Il quart’ultimo esemplare è difatti morto ieri nel parco zoo di San Diego in California: aveva 41 anni, ma da tempo se la passava proprio male. In particolare soffriva d’insopportabili dolori alle anche. E questo lo posso anche capire con tutto il peso, quasi quattromila chili, sì avete letto bene, che il più grosso animale terrestre si portava addosso. Non capisco invece, con tutto quello che succede nel mondo, che il tiggì di Italia 1 si sia preso a cuore, e a carico, questo problema nemmeno fosse il più grave oggi sul pianeta. Lo faccio io o lo fate voi? Lo faccio io come sempre: ma vaffanculo. E comunque non arrabbiatevi se poi nel mio gazzettino cazzeggio con le mie storie che magari non interessano a nessuno. L’importante è che piacciano a me e a un paio di coraggiosi aficionados. Altrimenti lo sapete da un pezzo cosa dovete fare: dovete semplicemente passare ad un altro blog di Cacasotto o di Cacasenno. Io, lo giuro, non m’offendo. Non è il tuo forte pensare: mi dicono anche questo. E non escludo che abbiano torto. Ma quelli della Banda mi hanno di nuovo infettato il blog. Così per tre giorni non ho potuto scrivere. Che è l’unica cosa che ancora so discretamente fare. A parte pattare. Cioè con il putt infilare sul green la pallina in buca. Però questo è tutto un altro discorso. E quindi, non potendo scrivere, non mi è rimasto altro da fare che meditare, riflettere e ponderare sulle mie fortune esistenziali. Pensavo per esempio che forse hanno ragione quelli che sostengono che ho sposato una santa donna. In effetti ieri la Tigre non ha fatto una piega quando, tra la partita di basket in tivù a mezzogiorno (Reggio Emilia-Trento 69-65) e quella delle venti e trenta (Milano-Venezia 87-65), le ho detto che sarei andato a vedermene una terza dopo il calar della sera: Mestre-Oderzo che si è giocata a Trivignano, in periferia, e valevole, come dicono quelli bravi di Sky o della Rai, per la nona giornata del campionato di serie C Gold. C’è poco da fare: ho sempre avuto un debole per la palla nel cestino e per la squadra nella quale ho cominciato a palleggiare quand’ero bambino e i miei idoli erano l’amico Gigi Boni e l’intramontabile Giorgio Cedolini. Che però giocava nell’odiata Reyer. Ebbene non ci crederete, ma mi sono divertito quasi quasi di più nella piccola palestra di campagna, a due passi dalla chiesa e dal campanile del paese, che davanti alla televisione e ai decoder. Per la cronaca ha vinto il Basket Mestre. E pure nettamente: 82-65. Ma non è stato questo. Forse mi è piaciuto quel matto di un senegalese, Diadia Mbaye, che saltava come un grillo, catturava rimbalzi e schiacciava, e sapeva (e doveva) fare solo quello. Mentre sugli spalti i suoi fratelli di colore suonavano il bongo e la gente cantava e ballava con loro. Allegra e spensierata. In un clima di festa in famiglia. Altro che il muso lungo fin per terra di Phil Goss al Forum, tre punti e quattro falli, una pena. Che se non ha più voglia di stare a Venezia perché si sente un incompreso, basta che lo dica a Carlo Recalcati e il Pesciolino rosso gli troverà subito un’altra squadra. Ma intanto gli si tolga per piacere la fascia di capitano della gloriosa Reyer. Stasera ho la castradina fatta dalla mia Tigre e tanti amici a cena. Magari domani anche vi spiego cos’è questo meraviglioso piatto della tradizione veneziana, però lasciatemi ancora aggiungere che sono veramente contento per Artiglio Caja che in A2 ha avuto il coraggio di prendere la Roma di Toti, con una ti sola, che aveva zero punti classifica e le gazzette davano già per morta e sepolta, e lui l’ha resuscitata con tre vittorie di fila, le ultime due in trasferta a Reggio Calabria e a Barcellona Pozzo di Gotto. D’accordo, questo sarà anche basket minore, ma è più pulito, fidatevi, di quello che difende a spada tratta Sacco e Vanzetti e Marameo Sacchetti e spara a zero sul povero Sardara. E qui m’arrabbio di nuovo e vi mando tutti dove ho spedito prima Studio Aperto con la Banda Osiris. Sì, insomma, lì dove ci siamo capiti.