21-22 marzo, venerdì e sabato Fiori rosa, fiori di pesco: stasera esco. E vado a teatro. Senza dover fare molta strada: cento passi o poco più. Li conterò: va bene? E così domani ve lo dirò. C’è il mio preferito e non lo dico perché l’ho conosciuto un paio d’anni fa, sempre al Toniolo di Mestre, quando in un delizioso monologo Ferzan Ozpetek ha raccontato se stesso, la sua ostinata storia e la sua affascinante vita nel mondo, incantando tutta la platea per oltre due ore. Dal mahalle di Fenerbahce del distretto asiatico di Kadikoy, dove intraprese gli studi liceali, alla Sapienza di Roma dove, andando contro ai desideri del padre d’ottima famiglia, conseguirà il titolo di studio in Storia del cinema. Un predestinato che mosse i primi passi d’assistente e aiuto regista con Massimo Troisi, Ricky Tognazzi, Francesco Nuti: non so se mi spiego. Anche mio padre, grande avvocato veneziano, avrebbe voluto che mi laureassi in legge come lui a Padova ai suoi tempi sotto le bombe tedesche dopo aver evitato, per mera fortuna, di partire per la guerra in Russia. Dalla quale non tornò nessuno degli ufficiali che avevano fatto con lui il corso a Moncalieri. Ma non mi ci vedevo proprio avvocato a difendere i ricchi, i ladri e i prepotenti come il Pregiudicato d’Arcore. Semmai giudice, sì insomma: una toga rossa. E comunque m’iscrissi, da vero bastardo, a medicina dove neanche andavo a lezione e men che meno alle autopsie di mezzogiorno. Diedi un solo esame il primo anno, un bel diciotto in istologia, impietosendo il professore con la mia misteriosa abilità ai vetrini, e un complementare, storia della medicina, refugio peccatorum per evitare di partire militare, solamente perché era la condizione sine qua per sposare, ancora minorenne, con la firma di mio padre, la Tigre che i ventuno li aveva appena compiuti nel novembre del 1969.
Quando trovai il coraggio di chiedere anche di passare dall’università di Padova a quella di Ferrara che non saprei, ma mi dicevano fosse molto più facile e forse anche lo era. Sarebbe bastato che alla domenica del resto giocassi libero o stopper, ed è quel feci pure egregiamente a quei livelli, nell’orgogliosa squadra di Medicina del campionato dell’Uisp, perché poi i professori mi agevolassero negli esami che avrei dovuto dare: chimica o fisiologia per esempio. Però purtroppo avevo nella zucca soltanto il pallino di poter diventare un giorno giornalista sportivo: non studiavo allora fisica, ma la Gazzetta dello sport e Tuttosport. Ogni giorno dalla prima all’ultima riga e quando potevo, andavo a Milano, nello studio di Radio–Rai in corso Sempione, ad imparare il mestiere da Roberto Bortoluzzi, cugino di mia madre, che s’era inventato insieme a Sergio Zavoli e Guglielmo Moretti, non so se mi spiego, ora lo posso ben dire anch’io, la trasmissione radiofonica più seguita dagli italiani: “Tutto il calcio minuto per minuto”. Che il caro Maestro napoletano di Mergellina, nipote di mia nonna Nina, nata a Karlsruhe von Baden Baden come Vincenzo Italiano, condusse per 28 anni di fila, dal 1959 al 1987, record assoluto anche per la televisione di Stato, prima d’andare in pensione ed essere sostituito da Massimo De Luca. Passando la linea ogni domenica pomeriggio a Beppe Viola, Sandro Ciotti, Claudio Ferretti, Massimo Valentini, Alfredo Provenzali, Ezio Luzzi e tanti altri, ma soprattutto all’inimitabile Enrico Ameri. Ricordate: “A te Ameri”. Questa è storia del giornalismo. O mi sbaglio? Assolutamente no.
Fiori rosa, fiori di pesco profumano la mia stanza di primavera. Dovevo parlare di Ferzan Ozpetek e lo farò meglio domani dopo aver visto a teatro “Magnifica presenza”, l’ennesimo adattamento scenico di uno dei suoi migliori successi cinematografici con Beppe Fiorello, Paola Minaccioni, Margherita Buy, Vittoria Puccini e Elio Germano. Un film del 2012 successivo alle “Mine vaganti”. Che mi sono perso. Meglio così. Così non conosco la storia della commedia, per la verità non proprio drammatica, che ha per protagonista il giovane Pietro, pasticciere gay di Catania che si trasferisce in un vecchio appartamento abbandonato della capitale frequentato dai fantasmi di una compagnia teatrale partigiana, per diventare attore, ma soprattutto per convincere l’amato Massimo ad andare a vivere con lui al posto della lasciva cugina Maria. Il fantastico regista, sceneggiatore e scrittore turco affronta dunque subito argomenti a lui molto cari: l’omosessualità e l’amicizia. Che sviluppa con la sua solita leggera ironia, che mi diverte moltissimo, tra il reale e il metafisico. Scusandomi sin d’ora con lui se non ho messo soprattutto i due puntini sulla O nobile del suo cognome semplicemente perché non ne sono capace e sarei felice se qualche amico di buona volontà prima o poi me lo insegnasse. Grazie mille.
Non ho parlato molto del fantastico regista, sceneggiatore e scrittore turco come meriterebbe e invece mi sono sbrodolato ancora una volta macchiando il loden verde tirolese che indosso nella foto che vi ho proposto mentre Alessio Boni mi firma un autografo con dedica sul suo libro autobiografico “Modere la nebbia”, tutto da leggere in un sol sorso, e perdendomi nei ricordi del dopo maturità classica del ’68 al collegio vescovile Pio X di Treviso. A tale proposito proprio mercoledì sera ho cenato al Fogher, il ristorante di fronte al grattacielo che illo tempore era conosciuto come il Palazzo (trevigiano) del Gazzettino che vendeva uno sterminio di copie contro le poche centinaia d’oggi. Del resto col direttore che si ritrova da quattro lustri cosa volete pretendere? E’ già tanto che ancora sia in edicola. Il risotto coi carletti, che a Treviso chiamano s-ciopetini e nel resto d’Italia non ne ho la più pallida idea, insomma con le erbette di primavera simili ai bruscandoli ma un po’ più amari, era davvero squisito. E come me l’ha gustato la tavolata dei dodici ragazzi del ’49, e per fortuna non tredici, ai quali toccò nell’estate del ’68 di superare, dopo doppio esame di quinta elementare, di terza media e di quinta ginnasio, pure quello impietoso di terza classico, che l’anno successivo sarebbe stato abolito, con le quattro prove scritte e una dozzina di materie orali. Un incubo!
Di solito, diciamoci la verità, le feste degli ex allievi sono di una tristezza infinita ed infatti sono stato indeciso sino all’ultimo se andarci o meno. Poi ho saputo che c’era anche Adriano Marchini che prendeva con me tutte le mattine, alle 7.10, il pullman della Svet in piazza Ferretto a Mestre per raggiungere piazza Vittoria a Treviso e poi di lì molto lentamente a piedi il Pio X. Dove nove volte su dieci arrivavamo dopo che già era stato chiamato per l’interrogazione il primo malcapitato. Con lui, che da un po’ abita a Mirano e va sempre in vacanza nella casetta di famiglia a Pocol, sopra Cortina, non ci si vedeva da una vita. Forse dai tempi dell’università. Adriano, al contrario di me (somaro), si è laureato in ingegneria ed ha fatto una brillante carriera. Ed io non parlo nemmeno l’inglese. Scandalizzando di nuovo probabilmente Massimo Zanetti, il re del caffè Segafredo, che, lupus in fabula, è nato poco lontano dal Fogher, fuori le mura di Treviso e per questo, e non solo per questo, è considerato un “foresto”, come del resto a Bologna, virtussina o fortitudina che sia, come lui stesso mi aveva una volta confessato in un’intervista molto interessante che non ho mai messo per iscritto perché la mia Tigre, spero involontariamente, insieme ai ritagli di giornale ha buttato via anche quello degli appunti con le quattro chiacchiere che avevo pure fatto col presidente di Tortona, l’avvocato Marco Picchi, e quello della Nutribullet, il notaio Matteo Cuor Contento. Il primo juventinissimo, il secondo interista e, spero, non intertriste. A tutti e tre comunque chiedo scusa e non me ne voglio se non mi rispondono più al telefono: li capisco. Ho rubato del tempo prezioso al loro sacrosanto lavoro. Dicendolo, sia chiaro, senza nessuna ironia.
Tornando ad Adriano, pure lui mi ha confessato d’aver passato una bella serata tra ex compagni di classe e che pure la torta di crema e frutta era molto buona. Sulla torta Giorgio Terrazzani, l’ideatore dell’allegra brigata, ci aveva pure messo lo zampino facendo scrivere al pasticciere sotto lo stemma dello storico collegio: “Ragazzi del ’49: 57esimo anniversario dalla Maturità Classica”. Classica con la ci maiuscola: esatto. Non c’è infatti liceo scientifico o altro che tenga a confronto. Anche se dalla ragioneria del Pio X, non so se lo sapevate, è uscito diplomato persino Lucio Dalla con un gran bel calcio sul sedere dei preti. Che cantava divertito: “Paff…bum!: io sono speciale”. Ed era vero. Anzi, verissimo. Nonostante il brano, presentato a Sanremo nel ’66, non avesse guadagnato nemmeno l’ingresso in finale. E comunque siamo stati così bene insieme, mostrando tutti ancora una gran voglia di vivere e guardando al futuro più che al passato, che è stata sul serio accolto con entusiasmo l’invito che Mario Bustreo, affermato imprenditore che non ho ben capito in cosa ma non importa, ha fatto per una cena di caccia che organizzerà il prossimo autunno al suo paese del Padovano di cui non mi ricordo ora il nome. Forse Piazzola sul Brenta. Probabilmente sì.
Ho contato i passi che dividono il Teatro Toniolo da casa mia, dove sono nato, nella camera matrimoniale di mia madre che ora è diventato il mio soggiorno: sono centoventitré, con l’accento sulla e. Che invece non va sul se di “se stesso” come sbagliano a scrivere il 90 per cento dei giornalisti dei quotidiani di Urbano Cairo. Mentre sono convinto che almeno un 80 per cento dei veneti di Luca Zaia non sanno cosa sia il passo dell’oca. Li aiuto: è quello romano che ha imparato a fare sin da piccola la vostra, e non certo mia, presidente del consiglio. Niente. Santa pazienza. Ma prima che andiate a cercare su Google lasciatemelo dire: me l’aspettavo. Siete davvero dei belli ignoranti che del resto votate o lei o il ministro delle infrastrutture e dei trasporti che pure ha fatto il ginnasio e il liceo classico Alessandro Manzoni di Milano. Più dodici anni di fuoricorso in scienze politiche senza conseguire però la laurea. Gli mancavano cinque o sei esami, ha precisato lui. Gli credete? Io no. Mai.
A questo punto m’auguro che i miei aficionados, pochi ma buoni, e voglio sperare pure anti-neofascisti, abbiano compreso almeno tre cosette. Uno: nel dopo teatro ho fatto una vasca nella piazza della torre dell’orologio e poi mi sono infilato a letto prendendo sonno in un minuto, al massimo due, nonostante cinque gocce pomeridiane di Bentolam (cortisone). Due: di nuovo l’ho fatta parecchio lunga, ma almeno ho diviso il mio pezzo in due giorni e così avrete tutta la domenica per leggermi spero volentieri anche se non ho parlato di pallacanestro e meno ancora di calcio o della Juventus di John Elkann, il Vostro di Loch Ness che più non seguo dalla gelida sera del 16 febbraio: Juve-Inter 1-0, gol (casuale) di Francisco Conceicao alla mezzora della ripresa. Tre: credo che quest’estate davvero scriverò finalmente un libro autobiografico della mia vita non solo sportiva magari correggendo e ampliando il pezzo che ho fatto oggi sulle mie (minime) disavventure scolastiche e la (grande) passione che ancora ho per il mio mestiere. Dal titolo “Ne ho una per tutti” o “Una per tutti”: deciderete voi. Di cui Federico Pasquini, l’eclettico general manager, ieri buon allenatore del Banco di Sardara, ha già prenotato domenica una copia mentre m’invitava dal parquet per favore di scrivere più spesso “altrimenti non so più cosa leggere di basket”. Troppo buono.
E qui potrei davvero mettere un bel punto grande come una casa e senza accapo se non mi fossi dimenticato di fare il titolo di questo articolo che dovrebbe supportare la foto d’Alessio Boni che sta scrivendo “A Claudio, mitico, con stima”. Per Alessio stravedo. Ammirando la sua generosità dialettica e la sua geniale intelligenza in scena nel Don Chisciotte e ora nell’Iliade con la sua fantastica compagnia. Come per Opzetech sempre senza l’umlaut come si scrive in tedesco. Che invece ho studiato e lo parlavo per comunicare con l’unico medico dell’ospedale di Trieste che lo scorso primo luglio riusciva a capire cosa stessi volendo dire. Mentre in italiano, e con la bocca tutta storta, non riuscivo a farmi comprendere dagli altri medici che temevano piuttosto che fossu stato colpito da un ictus. Avevo invece solo, dico per dire, una ipocalcemia molto grave. Ovvero il calcio nel sangue era sceso proprio quasi a zero quando al di sotto della soglia 4 mg/dL sei già mezzo spacciato. Probabilmente le paratiroidi avevano smesso di produrlo e comunque un’altra volta proverò a spiegarmi meglio. Adesso è davvero tardi e chiudo. Così come in tutta fretta vi racconterò cosa ci facevo a Crocetta del Montello, che ora non sto a qui spiegarvi dove si trova, andatevelo a cercare, nel più grande museo della stampa e del design tipografico che esiste al mondo. E non scherzo. Ero lì, come vi avevo già accennato, per assistere alla presentazione di “Mordere la nebbia” da parte dello stesso autore e dell’amico Marco Mangiarotti che non vedevo dal secolo scorso. Quando lui era inviato agli spettacoli e io allo sport del Giorno dell’Eni e non ancora quello di Riffeser-Monti che è finito anche peggio del Gazzettino.
Sul palco tra gli inchiostri due bergamaschi sinceri, Boni e Mangiarotti, che di successi ne hanno fatti un sacco e una sporta come diciamo noi dalle nostre parti dove purtroppo emergono ultimamente quelli che fanno a gara per essere più idioti degli ignoranti. Come gli ultras del Treviso che un tempo incoraggiavano la squadra di Paolo Vazzoler anche in serie B col calore di nessun’altra tifoseria del Bel Paese e che adesso invece farebbero molto meglio a starsene a casa. Si sono montati la testa, vorrebbero dettar legge o, meglio, non sanno bene nemmeno loro cosa vogliono. Scioperano nel primo quarto con una Nutribullet che sta dominando Sassari per poi contestare e insultare negli altri tre periodi i giocatori, soprattutto D’Angelo Harrison e Bruno Mascolo (?), oltre al povero Frank Vitucci che di chissà quali colpe accusano, sino a farli stroncare sotto i colpi di Thomas e Cappelletti (in brodo?), compiacendosene magari anche più del paron eterno Stefano Sardara e del bravo Massimo Bullo Bulleri. E la società di Treviso e il consorzio Universo in risposta a quelli là della curva cosa hanno fatto? Per ora poco o nulla. Se non confermare Frank sino a fine stagione. Persino meno del De’ Longhi Bruno, figlio di Giuseppe, che ha il braccetto più corto del padre plurimiliardario che pure ha il settimo patrimonio italiano anche se in crescita nel 2024 d’appena 400 milioni.
Sono un cincinin arrabbiato: lo si sarà capito. E difatti domani non andrò al Palaverde per non rovinarmi il fegato, ma al Taliercio sperando che i trevigiani, sponsorizzati con un solo milione dalla Nutribullet, vincano almeno con la Varese di Bulgheroni che Luis Scola sta impoverendo giorno dopo giorno, altrimenti sarammo dolori, e che i mestrini si scuotano dal loro ancetrale torpore e tornino a seguire la squadra della città che si è fatta anche lo straniero, il giovane Ousamane Maiga d’origini malesi, e che, bene o male, molto meglio da quando è arrivato come allenatore il buon Mattia Ferrari, è in lotta per accedere ai playoff che portano alla A2. Non poi così lontano da una Reyer sempre più chiacchierata e della quale m’occuperò molto presto ma con calma. Tranquilli. E intanto ho buttato giù un’altra cartella e non vi ho ancora detto nulla dello straordinario volume, “Il Don Chisciotte ritrovato” di cui nessuno meglio di Alessio Boni avrebbe potuto scriverne e parlarne. O di Alessandra Gracis per presentarlo. Lei che con amore e l’appoggio di tutta la famiglia trevigiana ha raccolto in un’opera straordinaria le ottantadue tavole d’acquarelli che sua zia, Maria Teresa Gracis (1925-1966), pittrice, ceramista e poetessa di origine trevigiana aveva dipinto più di mezzo secolo fa per celebrare il capolavoro seicentesco di Miguel de Cervantes e le avventure di Alonso Chisciano, l’Hidalgo che volle battezzarsi Don Chisciotte. Nel quale molte volte mi sono disperatamente riconosciuto negli articoli di questo blog. Senza essere spesso (e volentieri) capito.