Mi ero ritirato sull’Aventino, che è uno dei sette colli di Roma, in collera con i patrizi del basket, vanesi e ignoranti, che non riuscivo proprio più a sopportare. Quando all’improvviso mi colse di sorpresa un invito a cena che ho accettato molto ma molto volentieri. Era l’aprile del 2010. Dopo Pasqua. Se non ricordo male. E, se anche ricordassi male, abbiate pazienza: ho ormai i miei anni. E’ da un po’ che non ci si vede, mi disse Ferdinando Minucci. Ed era vero. Mi ero perso dietro ad altre cose e della pallacanestro non volevo pigramente più saperne. O quasi. Sapevo che nel frattempo la Montepaschi aveva vinto tre scudetti con Simone Pianigiani che ancora non avevo avuto la fortuna di conoscere e d’apprezzare poi tantissimo. E un quarto, sei anni prima, con l’ex cittì Re Carlo Recalcati. La domenica si sarebbe giocato al Palasclavo una partita a ridosso dei playoff: Siena contro Treviso. Che si chiamava ancora Benetton, aveva i soldi, era allenata da Gelsomino piangente Repesa e non era proprio una squadra da buttare al di là della faticaccia che stava facendo per strappare almeno un ottavo posto in quella regular season. Ebbene la sera prima il presidente, come ho sempre chiamato Minucci, m’invitò da lui a cena nella villa con piscina, tra le colline e gli ulivi di Pian del Lago, non poi molto distante dalla città del Palio. Che nel cuor mi stava e ancora mi sta. Mentre scrivo, e chi mi legge sa come scrivo, tutto a modo mio, tra lo sbarazzino e lo spregiudicato, i ricordi si srotolano dolcissimi nel ricordo di quei tempi felici. Per poi aggrovigliarsi, uno all’altro, quasi cercassero adesso riparo da questi ultimi che non sono stati di certo altrettanto fausti. Due titoli revocati, due coppe Italia e una SuperCoppa tolte. Difficile è non pensarci. Anche se la penso come Simone: gli scudetti della Mens Sana sono e restano otto. Gli otto conquistati sul parquet. Poche balle. Come quelli della Juve sono trentacinque. E gli altri dicano pure quello che vogliono. Ricordo che venivo da Venezia e che mi fermai per fare benzina poco dopo Poggibonsi quando m’accorsi che avevo dimenticato a casa il portafogli con tutti i soldi, i documenti e le carte di credito. Disperato telefonai allora al capo ufficio stampa della Montepaschi: “Riccardo, sono nella merda”. Una frase che è poi diventata celebre altre volte. Quante? Neanche mi ci metto ora a contarle. Prima di una partita di Coppa ero andato a comprare olio e vino a Montalcino e avevo colto l’occasione al balzo per pranzare al Leccio di Sant’Angelo in Colle. Dove fanno una fiorentina che vi raccomando. “Riccardo, sono nella merda: ho parcheggiato la Bmw in un vicolo cieco tra due case di pietra e sassi. E non riesco più a spostarla altrimenti la graffio tutta”. O a Barcellona durante le final four d’EuroLega. “Riccardo, sono nella merda: non ho più il cellulare e credo d’averlo smarrito in un taxi”. Fu come cercare l’ago in un pagliaio, ma Riccardo Caliani, oggi team manager della Soundreef di Guido Bagatta, mi risolse pure quel problema. Un tesoro d’amico. Come ne ho ancora tanti nelle contrade. Dove mi vogliono bene e mi prendono per quello che sono: il più distratto e incasinato dei pennivendoli della terra. Il Vieri e l’Alessandro per esempio. Coi quali mi alternavo nelle telecronache e nelle battute di caccia al cinghiale. Mi sono di nuovo perso come mi succede spessissimo correndo dietro alla emozioni, impasticciando le storie mie alle vostre, ma tranquilli: ritrovo sempre la strada maestra. Dunque vi raccontavo di quel sabato sera in cui salii per la cena nella villa di Messer Ferdinando. Di cui avevo una grande stima. Che mi propose di tornare a scrivere di pallacanestro su Siena News. O kappa. E così fu per quattro stagioni. Bellissime. Accanto ad una squadra fantastica. Che tutta Italia invidiava e avrebbe voluto imitare. Poche balle: ripeto l’esclamazione incazzata perché entri bene nelle zucche di tutti. Poi domenica la partita. La Montepaschi non perdeva in casa da tre anni e la Benetton non vinceva a Siena da sette. Non so se mi spiego. Ebbene finì 96-99. Diciotto di Dixon, diciassette di Rivers e sedici di Motiejunas. Che nel finale fecero sempre e solo canestro. Il 72 per cento da due e il 63 da tre di Treviso al tiro. “Non sarà mica che porti sfortuna?”, lo lessi nello sguardo di molti. Incrociando soprattutto quello della mitica Ylenia. Che a queste cose ha sempre terribilmente creduto. Insomma scappai nella notte senza voltarmi indietro: l’avevo combinata davvero grossa. E un po’ me ne vergognavo. Era la Siena di McIntyre (quel giorno comunque 21) e di Lavrinovic (26), ma anche di Romain Sato, il mio preferito assieme a Cespuglio Stonerook. Di Zisis, Hawkins, Domercant e Eze. Di Tomas Ress, Carraretto e Marconato. Forse la Mens Sana più forte di sempre. Che poi conquistò il quarto scudetto di fila in finale con la Milano di Armani e Pierino Bucchi. E la cosa cominciò a dare fastidio al mondo. Però intanto mi ero convinto che non portavo più nera. Ero diventato amico di Simone. Col quale m’intrattenevo dopo ogni conferenza stampa a fumare una Marlboro di nascosto. Mentre nella notte guardavamo insieme i senesi sciamare felici dal vecchio palasport tricolore e la storia a lieto fine non sembrava morire mai. E invece si è conclusa spaventosamente male. Anzi, malissimo. Come nessuno avrebbe immaginato. L’aria rancida, la finanza, il fantasma del Monte dei Paschi, le manette ai polsi di Minucci coperte dal giubbino in pelle, quelli che lo avevano sempre detto e lo avevano sempre saputo, ipocriti e filistei, una tristezza infinita, un colpo vigliacco al basso ventre, il nero di seppia, le cattiverie della gente, i risolini di scherno, il vuoto assoluto, il buio pesto. Pianigiani che vola a Istanbul. I singhiozzi disperati di Luca Banchi. Il coraggio isterico di Paperoga Crespi. La fine di tutto. Nella villa con piscina tra gli ulivi sono anche tornato mentre ancora si giocavano gli ultimi playoff della grande Siena. Tra la prima e la seconda partita della finale scippata dalla Milano di Banchi, Hackett e Gentile. Non c’era più vita in quel soggiorno spento e senza luce. E prima invece così solare. Le tende tirate, le imposte chiuse, la piscina vuota, i domestici filippini licenziati, nessuna donna per casa. Il presidente scese le scale che non sembrava neanche più lui. Mi confessò che era stato a trovarlo anche Livio Proli. Tutti gli amici di un tempo l’avevano abbandonato. E lui aveva dimenticato loro. Non sapeva più niente di basket e nemmeno si sognava di vederlo in televisione. Mi promise che avrei scritto un libro su questa brutta faccenda che non scriverò invece mai. Avrei voluto stargli vicino, ma non me l’ha più permesso dall’estate scorsa. Gli chiesi se si fosse messo dei soldi in tasca. Mi rispose neanche un euro. Mi piacerebbe ancora credergli, ma mi è molto difficile. Penso impossibile. Non lo chiamerò più Messer Ferdinando, ma voi non chiamatelo Vampiro. Perché in questo modo infanghereste la vostra storia. Lasciatelo fare agli altri. Quelli che sapevano tutto e tacevano. Quelli che si credevano santi e non lo erano. E non lo sono. Quelli che avevano il fegato spappolato dall’invidia. Però tornerò a Siena e al Palasclavo (stasera). Che mi mancano un casino. Senza malinconie e senza tormenti. Magari sotto le feste di Natale. E alla fonte della Lupa magari vorrei essere battezzato. Come mi era stato promesso. Prima che l’anno scorso Nonna Lupa con la cuffia vincesse il Palio di luglio e bissasse il successo in quello seguente dell’Assunta.