Perdonatemi se per una volta non ve l’ho raccontata giusta. Sono stato quasi tre settimane sull’Aventino: questo è vero. Tra i plebei. Dove mi avranno anche chiamato Sor Narciso per prendermi per il cesto o soltanto per far felice Gesù Cripto che non leggevo da un bel pezzo e mi sbaglierò anche, però mi sembra che abbia perso lo smalto da quando non duella più col mestrino permaloso e superbo. Ma stavo molto meglio tra di loro, brava gente, che tra gli arricchiti che non sono più i patrizi di un tempo come il grande Cesare della gens Julia colpito anche lui alle spalle da ventitré pugnalate, ma piccoli uomini, ruvidi macellai nell’aspetto, che si fanno oggi chiamare maestri dimenticandosi di quando erano solo ortolani senza tanti grilli per la testa, portavano in giro fischiettando la frutta e la verdura con la bicicletta, mentre oggi magari regaleranno anche milioni di mascherine e sogni (non proibiti) di trionfi in EuroLega, ma poi buttano via i soldi dalla finestra, tanto non sono loro, evadono se possono le tasse e soprattutto si mangiano la parola data come il Cicciobello di Sky si divora l’hot-doge con tanta maionese e senape che sbordano dal panino e rischiano di macchiargli la T-shirt bianca che ha avuto in regalo dall’Emporio Armani. In fondo non è poi così difficile scrivere senza far nomi e cognomi infischiandosene se ti capiscono o meno e inventandosi luoghi che esistono solo nei libri o nella fantasia. Tra i girasoli del monte Fuji o tra le bestie selvagge del Sergenti tanzaniano, così tutti dicono ma quanto è bravo e colto. E nessuno ti è ostile. Ma non è bello e soprattutto non mi piace. E comunque, come avevo cominciato a dirvi prima di perdermi dietro ai miei deliri d’onnipotenza per avvicinarmi un filino all’allenatore-manager di Milano che è la luce, il sole e la luna piena, agli occhi dell’Orso Eleni, non è vero che scendendo da uno dei sette colli, sui quali è stata fondata Roma, e Remo leggeva il volo degli uccelli, mi sono seduto sulla sponda del Tevere aspettando che passassero i cadaveri dei miei nemici che saranno anche passati, ma non li ho nemmeno visti, forse perché di loro alla fine non me ne fregava proprio niente. Piuttosto, guardando il fiume che durante il lockdown ha riacquistato il suo colore naturale che è il biondo dei capelli mossi di Anita Ekberg nella Dolce vita, molto più semplicemente pensavo soltanto ai cazzi miei e al massimo a quanto stavamo bene anche senza di lui quand’era in Texas tristemente (come al solito) seduto accanto al tiranno Gregg Popovich. Si fa per dire. Ovviamente. Non è da ieri infatti che la pallacanestro italiana è in grande sofferenza. Però, nella nostra miseria, si tirava lo stesso a campare e non ci si complicava troppo la vita. Poi è tornato Lui. Con l’elle maiuscola: Ettore il Messi(n)a nella foto signore e padrone del gregge di pecoroni della Banda Osiris. Che dal BelPaese se n’era andato quindici anni fa sbattendo la porta. Stufo diceva, e in effetti non si poteva dargli torto, d’essere insultato in qualsiasi palazzetto d’Italia avesse messo piede lontano dal Palaverde. Però nessuno mi toglierà dalla zucca che già dall’inizio di questo secolo nella sua testa aveva cominciato anche a farsi largo l’idea di poter essere l’uno e l’altro. Cioè l’allenatore di successo ma anche il manager di grido che potessero confluire in un’unica figura: quella del Dio in terra. E difatti, dopo che con Marco Madrigali alla Virtus, aveva trovato modo di litigare anche nella Benetton con l’amico (?) Maurizio Gherardini per un sottile gioco di potere che adesso non mi appare più oscuro. Ovvero quello d’arrivare a parlare tu per tu con Benetton quelle rare volte in cui il mastino Giorgio Buzzavo mollava l’osso e permetteva soltanto a uno dei due di pranzare con lui e con il signor Gilberto. Sia chiaro, Ettore è tutto tranne che uno stupido. Ed è stato anche il miglior allenatore del reame sino a quando, nell’inverno del 2011, dopo essere stato coperto di rubli dal Cska di Mosca come nemmeno Matteo Salvini dai magnati russi, non ha incontrato sulla sua strada, vi piaccia o meno, Simone Pianigiani che gli ha rifilato a Madrid in EuroLega un liscio e busso, cioè un bel trentello di scarto, che lo costrinse a dare le dimissioni dal Real seduta stante e a riparare una prima volta con scarsa fortuna negli States come consulente esterno dei Los Angeles Lakers. Vi sto raccontando tutte queste storie sull’ingrata creatura di Tonino Zorzi non perché stia raccogliendo gli spunti per scrivere un libro sulla vita di Ettore Messi(n)a: neanche ci tengo e poi c’è chi lo potrebbe fare mille volte meglio di me. Per esempio Walterino Fuochi. Ma solo per aiutarvi semmai a capire la metamorfosi di un personaggio che sapevo essere permaloso e vanesio quasi come me, ma non polemico, aggressivo, attaccabrighe, disgustato, saccente e vendicativo al punto da soffiare due volte il posto a Pianigiani. La prima come cittì e la seconda come trainer dell’Olimpia. Quando, giusto un anno fa, si è proposto a Pantaleo(n) Dell’Orco in un primo momento per occupare la poltrona di presidente e successivamente, già che c’era, per sedersi anche in panchina. Senza che per questo adesso debba gridare allo scandalo. Anzi. Sapete come la penso: Mors Tua Vita Pea. Che è anche il sottotitolo del mio blog claudiopea punto it. L’importante è che poi ognuno faccia i conti con la propria coscienza e non finga d’essere un sant’uomo. Però non posso neanche far a meno di non vedere e sottolineare i clamorosi fallimenti di Messina in nazionale e nell’Armani che sono sotto gli occhi di tutti. Ovvero la mancata qualificazione ai Giochi di Rio del 2016 nel torneo preolimpico di Torino che è costato al governo italiano l’occhio della testa e a Giannino Petrucci la più brutta figura della sua vita. E adesso da ottobre ai primi di marzo le ventiquattro sconfitte accumulate tra campionato (sette di cui tre al Forum), Eurolega (sedici in 29 partite) e una nella semifinale di Coppa Italia con la Reyer che hanno fatto borbottare al Paron: “Mi al posto d’Ettore non saria uscio de casa per la vergogna ancora altri do mesi dopo il coprifuoco”. E invece il Bambin Gesù, nato in una grotta dell’Etna ed emigrato a cinque anni in terraferma nella laguna veneziana seguendo la stella cometa assieme ai suoi tre Re Magi (Ciccioblack Tranquillo, Alfredo Alfredo Cazzola e Giorgino Armani), ha scassato la minchia un po’ a tutti in questa terribile primavera di pandemia arrivando persino a rampognare al telefono Amar Alibegovic perché gli ha giustamente preferito Djordjevic (“che non ti farà mai giocare”, senti chi parla?) e non è andato a Milano dove i giovani italiani (da Melli a Della Valle) si sono tutti bruciati come salsicce dimenticate sulla brace. E ditemi che non è vero. Senza parlare dei casini che sta combinando nella Lega dove è finita la pace e dove anche qui vorrebbe comandare tutti a bacchetta, compreso Umberto Gandini, ma Luca Baraldi non glielo permetterà e difatti recentemente gliele ha cantate con gusto: “Sarai anche un ottimo allenatore o, meglio, lo sarai anche stato, ma lascia perdere di parlare con me di bilanci che non ne ha mai letto uno e non ne capisci niente”. E qui potrei andare avanti all’infinito raccontandovi una lite più gustosa dell’altra, però ho sforato ormai ben oltre la mezzanotte e allora sapete cosa faccio? Al caro Paisà (o poco ci manca) dedicherò ancora un altro paio di puntate satiriche, ma intanto vi confeziono l’Armani che il manager Messina ha creato per la prossima stagione cercando oculatamente di spendere tutti i 33 milioni d’euro di budget, il terzo o quarto assoluto in Europa, che l’Emporio gli ha messo per ora a disposizione salvo qualche un ulteriore sforamento e ritocco strada facendo. Playmaker Malcom Delaney (Barcellona) e Sergio Rodriguez. Guardie Shavon Shields (Vitoria) e Michael Roll. Ali: Gigione Datome (Fenerbahce), Vladimir Micov, Edgaras Ulanovas (Zalgiris) e Jeff Brooks con il muso lungo. Centri: Kaleb Tarcewski e Kyle Hines (Cska). Otto stranieri e due italiani. Più Arturas Gudaitis che è di troppo e difatti è in vendita, ma chi dà i soldi che guadagna Milano? Nessuno. Più Andrea Cinciarini, Davide Moretti (Texas Tech Univeristy), Paul Biligha e Riccardo Moraschini, offerto a mezzo mondo con lo sconto, che torneranno buoni eventualmente solo per il campionato. Insomma la squadra ricca e straricca è fatta e rifatta: ora le manca solo l’allenatore. Battutaccia a parte, mi pare comunque che al sessantenne Messi(n)a interessi ormai più la carriera del presidente a quella stressante e noiosa dell’allenatore. Ed infatti, se accetta un consiglio da chi lo conosce da quasi mezzo secolo, dovrebbe farsi affiancare da Pierino Bucchi come assistente e da Giordano Consolini, in rotta prolungata con Baraldi, per la supervisione del nuovo settore giovanile milanese. Altrimenti gli amici cosa servono a fare? Sogni d’oro. Soprattutto al pazzo mulo di Trieste, Matteo Boniciolli, che ha avuto il coraggio di tornare a Udine dove nel 2000 alla guida della Snaidero aveva per altro conquistato la promozione in A1. Mentre un altro triestino doc, Michele Ruzzier, nipote proprio di Boniciolli, è a un passo dal rientro a casa nell’ambiziosa Allianz di Marione Ghiacci. Pesaro e Pistoia chiederanno e otterranno di ripartire invece dall’A2 e questa non è certo una buona notizia come lo è sempre l’ultima per chi è scaramantico. E io lo sono. Quasi più di Max Chef Menetti al quale porterò sempre fortuna perché è un amico sincero e un ragazzo d’oro come ce ne sono rimasti pochi altri nel suo mestiere sempre più difficile se fatto con la passione di Artiglio Caja. Che ha rinunciato per il Covid a tre mensilità, mentre il Messia appena al 6 per cento del suo doppio stipendio. E nemmeno vi domando dove stia l’errore.