Tra venerdì e sabato, bene o male, il Ciccione ne ha combinate di tutti i colori. Il Ciccione del golf è ovviamente Kevin Stadler, figlio di Craig, il tricheco, vincitore di 12 tornei della Pga Open più il Champions di Augusta: ormai l’ho imparato a memoria sentendolo dire ogni due per tre da Silvio Grappasonni come le vecchiette che recitano le Ave Maria in chiesa sgranando il rosario. Il primo giorno per la verità lo avevo affettuosamente chiamato Cicciobello, ma poi, vedendolo uscire in quel modo sotto sponda dal bunker con i piedi sull’erba e la pancia che gli rotolava quasi nella sabbia, come posso continuare adesso a far finta che non somigli ad un ippopotamo? Inopportunamente grasso e, comunque, non un grande spot per nessuno sport. Dando ragione a quei dilettanti che passano dal tennis al golf quando proprio non ce la fanno più con il fisico e non arrivano a beccare una smorzata sotto rete neanche con i petardi dietro al sedere. Però c’è anche il rovescio della medaglia e le rotondità del Ciccione potrebbero sempre consigliare il nostro Manassero a mangiare qualche grammo di pasta in più. Magari, per far rima, con il ragù. Interrompendo una dieta che mi pare esagerata. O no? Io almeno la penso così. Il ragazzo di Negrar, provincia di Verona, dopo infatti un primo giro del Le Golf National che aveva fatto ben sperare, è di nuovo uscito dalla retta via nel secondo (+2) e nel terzo (+4) dando la sensazione di non stare neanche in piedi quando il vento ha cominciato a soffiargli in faccia e a piegarlo quasi in due. Tra alti e bassi invece Kevin Stadler ha resistito a tutto e a tutti ed è sempre in testa all’Open de France quando a mezzogiorno e mezzo si è presentato al tie di partenza per le ultime diciotto buche di un campo che era nel secolo scorso una discarica ed è da oltre quarant’anni un sorprendente links scozzese con più bunker che alberi, un terribile, pungente e fitto rough, molti laghetti artificiali e un venticello nient’affatto gentile, che ,quando comincia a mulinare un po’ di qua e un po’ di là, ti fa andare via di testa trasformando il percorso da abbordabile a pazzesco. La fortuna anche ha dato una mano ieri a Matteo proprio all’ultima buca, quando da 150 metri, o giù di lì, ha infilato la pallina direttamente in buca con il secondo colpo e ha fatto eagle. Ora il mio amico Nico, che non gioca a golf, ma che mi legge anche se scrivo sui muri degli spogliatoi del mio circolo, dirà che non riesce a seguirmi più. E anche lo capisco perché il golf ha un linguaggio tutto suo. Come del resto tutti gli sport che nascono, crescono e hanno successo nei paesi dove si parla l’inglese. Ma l’eagle è eagle, cioè due colpi sotto il par. E il par è il par, ovvero il numero dei colpi con cui il giocatore dovrebbe entrare in buca. Se invece mi chiedete cosa sia uno shank, l’ho scoperto solo venerdì proprio da Stadler che dal rough ha sparato la pallina tutta a destra nell’erba molto più alta perché l’ha colpita con la pipetta della faccia del bastone, ossia nel punto dove questa si unisce allo shaft. E qui mi fermo perché mi rendo conto che adesso dovrei spiegare a Nico cos’è il rough (che si pronuncia raf), la pipetta (con una sola p!) o lo shaft o il socket che è una sorta di shank e qui non sarebbe più finita. Vorrà dire allora che gli regalerò il glossario per i non golfisti che in Italia sono in sovrappiù. Diciamo cento a uno. E che non se ne parli più…
Foto ripresa da www.golf.com