Scrivevo ieri dei grigi, ma con l’altro occhio non perdevo di vista i viola. Già avevo visto in tivù i giallorossi calpesti e derisi ai calci di rigore dallo Spezial One che, se non avesse cambiato un mese fa l’allenatore, Mimmo Di Carlo per il croato Bjelica, sarebbe ancora un’anima in pena che vagava nel purgatorio della serie B senza ben sapere di quale pasta fosse fatta. Però mai avrei potuto immaginare che, di lì a poco più di un’ora, anche alla Fiorentina di Paulo Sousa sarebbe toccata la stessa sorte, color della vergogna, capitata tra capo e collo, come la lama della ghigliottina, alla Roma del sergente Garcia eliminata al primo turno di Coppa Italia pur giocando in casa. Sempre che l’ostile Olimpico sia oggi ancora la sua casa. I grigi sono l’Alessandria per la quale ho sempre avuto un debole e non ne ho mai capito bene la ragione. Forse perché avrò avuto sì e no undici anni quando mio padre mi portò all’Appiani a vedere un ragazzino con i capelli a spazzola, esile esile, quasi quasi senza polpacci e glutei, che però accarezzava il pallone di cuoio con tanta eleganza e serenità che non sarebbe stato difficile ipotizzare che sarebbe presto diventato Gianni Rivera. Del quale il Milan ne aveva appena acquistata la metà per 65 milioni di lire che nel 1960 erano già una gran bella cifra. Quel giorno, credo di primavera, ma mi potrei anche sbagliare, tra Padova e Alessandria finì 1-1. Era il mitico Padova del Paron, Nereo Rocco, del catenaccio e di una formazione che già allora recitavo a memoria e tutta d’un fiato: Pin Blason Scagnellato e via dicendo. Uccellino Hamrin, che non aveva avuto fortuna nella Juve, era stato due anni prima ceduto alla Fiorentina. Con la quale segnò 150 gol in dieci stagioni, ma non vinse mai lo scudetto, né la classifica dei cannonieri. Neanche in quel campionato, dominato dalla Signora bianconera, nel quale con 26 reti finì secondo tra Omar Sivori (28) e John Charles (23). Andavo matto per Humberto Rosa, l’argentino di Rosario che oggi ha 83 anni e vive ancora nella città del Santo. Rosa era la luce dei biancoscudati che guidò al quinto posto finale grazie anche ai gol (21), per lo più segnati in contropiede, di Sergio Brighenti. E qui tiro il freno a mano, altrimenti mi perdo tra i ricordi patavini e non ne vengo più fuori. Però altre due cose, carine e curiose, vi devo ancora come minimo raccontare. La prima è che quello del 1959-60 è stato l’ultimo torneo disputato nella massima serie dai grigi dell’Alessandria. Della quale Franco Pedroni, “stopper spigoloso”, come lo descrisse all’epoca il buon Angelo Rovelli sulla Gazzetta, era il capitano, ma anche l’allenatore. Mio padre invece sosteneva di non aver visto in vita sua un difensore più canaglia e carogna di Pedroni. E probabilmente aveva più ragione lui. Pace comunque all’anima loro. L’altra curiosità è che Gianni Rivera sempre quel giorno all’Appiani non portava il numero dieci sulla schiena, ma l’otto. E la cosa mi deluse oltre misura. Il dieci era di Giancarlo Migliavacca, arrivato all’Alessandria dal Milan proprio in parziale contropartita per il passaggio in rossonero dell’Abatino, come lo chiamava Gianni Brera. Ma si può? Con tutto il rispetto per Migliavacca, il dieci è il numero di Rivera. Come di Pelè, Platini, Maradona, Zico, Baggio, Messi. Glielo dissi un sabato sera nella quale andammo a cena lui e io. E nessun altro. Un privilegio non da poco. Mangiammo pesce, entrambi mi pare una sogliola alla mugnaia, in un ristorante di Catania che non voleva farci pagare, ma insistemmo e ricordo che il conto fu poi anche particolarmente salato. Difatti ci ridemmo sopra e Gianni mi confessò proprio in quella occasione, a patto che non lo scrivessi sul Giorno, che a undici anni anche lui, come me, era tifoso della Juventus nonostante nel Milan giocasse Pepe Schiaffino, senz’altro l’interno sinistro uruguaiano più forte di tutti i tempi. Mi smentì invece che la Signora gli abbia in qualche modo fatto la corte. Del resto allora col 10, e con i calzettoni arrotolati intorno alle caviglie, giocava in bianconero un certo Omar Sivori, il mio idolo da bambino. E comunque nell’autunno del 1960 Rivera prese il posto di Schiaffino in rossonero e conquistò la stagione dopo il primo dei suoi tre scudetti. Era invece l’11 febbraio del 1984, lo ricordo bene, quel sabato in cui cenammo insieme. Non lo posso dimenticare perché il giorno dopo al Cibali segnò Cantarutti per il Catania in rovesciata sotto gli occhi di Franco Baresi, ma l’arbitro Benedetti annullò la rete e ci fu l’invasione di campo, partita sospesa e 0-2 per il Milan a tavolino. Rivera era il vice di Giussaldo, detto Giussi, Farina. Poi due anni dopo arrivò Silvio Berlusconi e la storia la sapete. Come sapete che l’Alessandria di Angelo Gregucci, in testa al campionato di serie C (girone A), ha in Coppa Italia prima buttato fuori il Palermo e poi martedì il Genoa a Marassi. E nei quarti affronterà proprio lo Spezia. Mentre la Fiorentina è stata eliminata al Franchi non ai calci di rigore e nemmeno con una squadra incompleta, non ha giocato solo Borja Valero, ma da un gol di Di Gaudio e dal Carpi. Non ci credete? Ve lo posso invece assicurare. Perché ho visto Mario Sconcertino Sconcerti a Ponte Vecchio che trascinava una grossa pietra legata al collo e voleva buttarsi nell’Arno. Assieme al mio caro amico Massimo da Marghera di viola tutto bardato.