Dall’ultimo numero di SuperBasket: alle porte dei playoff e ovviamente prima dei quarti e delle semifinali che hanno lanciato Reggio Emilia in orbita scudetto.
Dico la verità. Come quasi sempre. Non lo conoscevo, ma me ne avevano parlato tutti molto bene. Il che di solito m’insospettisce perché ricevere consensi dal mondo della pallacanestro perfettamente allineato, coperto e compatto è un po’ come pretendere di raccogliere la luna dal pozzo e di congelarla poi nel frigidaire per i giorni delle grandi occasioni. Tempo di playoff e di ciliegie. Per le quali posso anche perdere la testa e scrivere scemenze. Però devo darvi ragione: è indiscutibile che Alessandro Dalla Salda abbia una marcia in più di tutti. E non perché è stato eletto miglior dirigente dell’anno di grazia 2013. Se è per questo, gli faccio notare, il premio è stato vinto dodici mesi prima anche dal Pesciolino Rosso. E lui sorride furbo. Dimostrando di avermi qualche volta anche letto.A tuo rischio e pericolo. “Correrò volentieri questo rischio”. Intanto ci siamo dati subito del tu. Non fosse altro perché una volta eravamo colleghi. Cioè entrambi giornalisti. Mentre comincia a gocciolare ed è forse il caso di cercare riparo all’osteria. L’appuntamento era per l’una in punto. Appena fuori dal casello di Reggio Emilia. E nessuno dei due, lo giuro, ha aspettato un secondo. Il che è già un buon segno. Poi l’ho seguito in macchina per un labirinto di strade anche abbastanza strette. Dove magari pure il navigatore satellitare si sarebbe smarrito. Tra Bagnolo in Piano e Novellara se non ho capito male. Alla rotonda dopo il semaforo la prima uscita a destra. La chiesa col campanile di Pieve Rossa, la scuola coi giochi per i bimbi, gli scivoli e le altalene, poche case e i campi di grano coi papaveri ovviamente rossi. Come è rossa tutta questa terra beata. E naturalmente alti alti alti. Piegati dal vento che si è alzato da poco e preannuncia un temporale mica da ridere che potrebbe far danni anche alle mie ciliegie. Però questi amministratori rossi, che per la verità nemmeno conosco, potrebbero anche costruirlo un palasport a Reggio: sarebbe sempre tempo e ora. E non solo prometterlo da lustri. Intanto mi scaldo: ci vuole poco, ma forse ne ho anche davvero bisogno. O mi sbaglio? “No, non ti sbagli”. Anzi, mi confessa che un anno fa a Dan Peterson venne quasi da ridere pensando di dover fare la telecronaca di una partita dell’Eurochallenge, superbamente poi vinta peraltro dalla GrissinBon, nella stesso scatolone di cemento, che puzza ancora di vecchie scarpe da tennis, nel quale trent’anni fa la sua Simac (poi Tracer) affrontò le Riunite di Bob Morse e Roosevelt Bouie pregando Dio che il soffitto non gli crollasse addosso. Ma non sono giorni di tristezze come dicevo. E allora cambiamo in fretta discorso. Sì, in verità, a guardarlo bene, Alessandro Dalla Salda un po’ somiglia a Guardiola: dovrebbe tenere solo la barba più incolta. “Coi capelli invece quasi ci siamo: ne abbiamo pochi tutti e due ”. E anche con gli anni: lui è del sessantotto, mentre Pepp è più giovane di due e mezzo. L’osteria è proprio carina. Così come è curioso il suo nome: Il gioco dell’oca. No, non ci siamo persi. Anzi, Sandro è qui di casa. “Siamo gente di campagna”, racconta fiero e parte a briglia sciolte parlando di sé ma anche della società di cui oggi è il brillante amministratore delegato. Tanto che sarebbe un peccato frenarlo. E difatti non lo fermo. “Siamo gente di campagna che non si arrende mai e dà il giusto valore alle cose. In più è ambiziosa, ma non cerca le scorciatoie. E sta bene a tavola pure quando deve prendere importanti decisioni”. Nasce subito un feeling tra noi. Anch’io la penso allo stesso modo e mi piace ascoltarlo mentre gusto un gnocco fritto col prosciutto crudo. Sicuramente di Parma. E ovviamente squisito. “Vogliamo sempre creare un buon gruppo. Anche con le famiglie. E per questo una volta alla settimana andiamo tutti a pranzo o a cena insieme. Meglio se in campagna. Ma ora assaggia questo lambrusco. Scuro scuro. E freddo freddo. Come va opportunamente sempre servito. Anche d’inverno”. Il padre Vittorio, veterinario in pensione, saltò 7 metri e 37 in lungo ai Giochi del Mediterraneo. “E’ lui che mi ha trasmesso la passione per queste terre e al tempo stesso per lo sport”. Due amori che vanno avanti di pari passo nella vita di un ragazzo che giocava a tennis, ed era campione provinciale, ma anche a calcio, in difesa, prima di rompersi il crociato, se ricordo bene nella Reggiana in serie D, e a pallacanestro. Con Paperino Montecchi. Al Circolo d’equitazione di Reggio Emilia. “Era uno sportivo: questo voglio che si scriva sulla mia lapide: lo dico sempre a mia moglie Sandra”. Che spero neanche ti badi. “Perché?”. Perché capisco che ti rilassi correre “anche nella nebbia annusando i silenzi della campagna”, ma magari girando alla larga dal camposanto. Sorride di nuovo e ancora di gusto.Due figlie: Ludovica di quattordici e Eleonora di undici. Però c’è sempre il lavoro e il basket prima della famiglia: lo ammette lui stesso. E non c’è il golf. “Perché non posso rispondere al cellulare”. Ci andiamo piano piano conoscendo. Ma c’era il triathlon olimpico: due chilometri e mezzo in mare aperto “tra le petroliere”, quaranta in bici e dieci a piedi. “Ne ho fatte due di gare, ma dopo quella del Cavallino, tra Jesolo e Venezia, ci ho rinunciato. Non ero preparato. Nella corsa anche me la cavavo. Ho sempre corso per i campi sin da piccino. Ma a nuoto ero un disastro e ricordo come un incubo l’altoparlante della pineta che nella calura devastante d’agosto annunciava che mancava solo un quarto d’ora al tempo massimo e il traguardo non era ancora poi così vicino. E imparai da allora che nessuno ti regala mai niente”. Peccato che non mi piaccia il formaggio: mi dice sconsolato. “Perché questo tortino è davvero una delizia”. E lo capisco: per uno di Reggio Emilia è in effetti quasi un delitto rifiutare il grana padano. Però mi rifaccio alla grande con il risotto di ortiche e un ragù di petto d’oca in bianco. Ovviamente senza formaggio. Un giorno assaggerò anche i cappelletti in brodo bollente, il suo piatto preferito, ma in tempo di playoff e di ciliegie non mi sembrava proprio il caso. “Ho iniziato a scrivere per la Gazzetta di Reggio. Avevo 23 anni e fu Giuseppe Galli a propormi di collaborare. La prima partita fu Roteglia-Bra del campionato interregionale. Arrivai in ritardo di dieci minuti, io che sono sempre stato puntuale. Ma diluviava quella domenica in Val Secchia”. Insomma veniva giù a secchi. “O quasi”. E ti dissero che non era quello il tuo mestiere. “Ma no: cosa hai capito? Subiti dopo salirono contemporaneamente in serie A la Reggiana di Pippo Marchioro, la Sidis di Mike Mitchell e il Latte Giglio di Daniele Bagnoli. E scrissi con gioia e entusiasmo di tutti e tre gli eventi”. E’ sempre meglio fare il giornalista che lavorare o studiare: anch’io la pensai allo stesso modo e finii al Giorno. Abusivamente occupando la scrivania di Gianni Brera che nel ’79 era intanto passato al Giornale di Montanelli. “Invece io continuai a studiare e in cinque anni mi sono laureato in scienze politiche a Bologna. Mia madre mi avrebbe invece visto bene con la toga d’avvocato”. Come mio padre. “E la Gazzetta mi assunse anche come praticante a due milioni e mezzo al mese. Ma per 700 mila lire in meno presi al volo l’opportunità che mi offrirono nell’estate del ’97 Pierino Montecchi e Elio Monducci, l’allora presidente, di curare l’ufficio stampa e le relazioni esterne della Pallacanestro Reggiana. Questa era la mia strada”. Una strada lunga “ma aperta”. Dove “la meritocrazia conta più della gerarchia” e i buoni risultati più di tanti bei discorsi. Una strada non sempre in discesa. Anzi. Basta girarsi indietro e ricordare che appena quattro anni fa la Trenkwalder di Finelli e Max Minetti si salvò in Lega Due dalla retrocessione all’ultima giornata. Mentre tra una settimana, se tutto andrà bene, la Grissin Bon potrebbe giocare le semifinali-scudetto come quelle storiche del ’98 col mitico Dadone Lombardi deus ex macchina e Sandro Dalla Salda debuttante. E magari i duroni di Vignolasaranno finalmente maturi. Se nel frattempo non se li saranno mangiati i merli predatori. Una strada iniziata dalla gavetta sino ai massimi vertici: prima direttore generale, poi amministratore delegato, oggi con patron Stefano Landi e presidente Ivan Paterlini. E Alessandro Frosini direttore sportivo. Spero di non aver dimenticato nessuno: Sandro non me lo perdonerebbe. E, strada facendo, come canterebbe Claudio Baglioni, la laurea, i corsi di manager sportivo alla Bocconi o la scuola degli industriali di Modena, le lezioni di Julio Velascoe di Righetto Sacchi, procuratore di volley e “maniaco dell’organizzazione”. E il tempo appena di sposarsi finalmente con Sandra ma non prima del luglio 2012 nella chiesa di Santa Maria Assunta di Casola Querciola. Tra le sue campagne. Forse anche per festeggiare il ritorno di Reggio Emilia in serie A. E domani? Lo vedrei bene direttore generale della Lega. Ha idee, coraggio, passione, competenza, successo. Cosa volete di più, signori della nostra pallacanestro? La formula del suo basket è quella giusta: tanti giovani, tanto talento, tanti italiani. Più un paio di vecchie volpi come Kaukenas, Diener e Lavrinovic. O sono io che ho preso un colpo di fulmine? Non credo. Al massimo mi è successo un paio di volte ma quand’ero molto più giovane. Adesso basta. Ho semmai un mare di storie carine ancora da solcare salendo sulla sua tavola da surf preferita. “Ho imparato da Manducci che la parola non vale: deve essere tutto scritto. Lo pretese persino da Kobe Bryant al suo primo anno nei Lakers quando, di passaggio a Reggio Emilia, affittò tutto un piano dell’hotel Astoria e chiese di potersi allenare qualche ora al Bigi. Non c’è problema, mi disse il presidente, però ti fai mettere per iscritto che, se per caso s’infortuna, i danni li paga totalmente la sua assicurazione”. Era l’agosto di diciotto anni fa e Sandro era entrato nella Pallacanestro Reggiana da pochi giorni. “Landi mi ha invece responsabilizzato e aiutato a crescere”. E di volta in volta l’ha lasciato scegliere – questo lo aggiungo io – gli allenatori e i giocatori. Qualche volta anche sbagliando. Ma raramente. E non vi dico quando e con chi: non so lui, ma io ho già anche sin troppi nemici. Però gli chiedo a bruciapelo dopo il gelato al gusto di noce di cocco e un caffè doppio in tazza grande: perché Max Chef Menetti? “Perché è l’allenatore che più di tutti mi ascolta e non mi parla mai di budget. E’ però il più bravo a farsi comprare i giocatori più costosi”. E il suo peggior difetto? “E’ permaloso da matti”. E non è detto che questo non sia invece un pregio. Un sogno nel cassetto? “Come la Sampdoria di Mantovani dopo la Coppa delle Coppe, e noi abbiamo già vinto l’Eurochallenge, mi piacerebbe anche conquistare prima o poi lo scudetto”. Magari con Amedeo Della Valle, il figlio di Carlo: sarebbe un sogno anche mio. Ora lì a portata di mano. Ed un ultimo ostacolo da saltare: dopo Brindisi e Venezia, da domani Sassari.