Non scrivo da parecchio tempo. Fate conto da Ferragosto. Più o meno. Ma adesso non sto qui a spiegarvi le ragioni che sono molteplici e un po’ complicate del mio Aventino. Onde per cui, com’è bello tornare a scrivere “onde per cui”, vi confesserò magari un’altra volta i motivi della mia salita al Colle. Però non a quello di Sergio Mattarella, sul Quirinale, dove negli ultimi tempi avrei fatto brutti incontri, ma lassù dove Menenio Agrippa quasi 2500 anni fa fece un bel discorsetto ai plebei romani che, più incazzati degli intertristi d’oggi, s’erano per protesta lassù rintanati e li convinse a tornare in senato dai patrizi rubentini. Perché senato e popolo, come predicò l’illustre apologo, devono essere un corpo unico che perirebbe con la discordia e invece fiorisce con il consenso. “Senatus et populos quasi unum corpus discordia pereunt concordia valent” (senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute). Mi sembra d’essere Claudio Lotito. Per carità di Dio e allora salto in fretta al dunque. Son tornato a scrivere solo per il mio amico napoletano, Luca Cirillo, che mi è stato molto vicino in queste (difficili) settimane. Per la verità lui vorrebbe che insieme raccogliessimo gli aneddoti curiosi e anche carini dei miei 35 anni di pennivendolo da strapazzo e li buttassimo giù in un libello di grande successo. Vedremo. Intanto s’accontenti di questa improvvisa mia esternazione letteraria nel cuore della notte e mi perdoni se mi troverà un po’ eccitato e ancora più svitato del solito ma a me il cortisone, che ho cominciato di nuovo a prendere da qualche giorno in vena e in fiala, fa sempre questo strano effetto. Per esempio mi son ritrovato ieri seduto sul letto più sveglio di un galletto all’alba. Eppure erano solo le quattro e dieci. E non sono più riuscito a prendere sonno. Che faccio? All’improvviso e di scatto mi sono rimesso avidamente a scrivere. Perché mi aveva davvero avvinto quel magnifico “ora sta zitto, coglione” sparato in faccia al Conte Andonio, che chiamavo Parrucchino quando allenava il Siena e non si era ancora fatto trapiantare il ciuffo negli States, da Andrea Agnelli che per me era un banalissimo Agnellino prima che martedì sera esternasse, anche con un eloquente e vigoroso gesto della mano molto simile ad un vaffa, tutto il livore che chissà da quanto covava nell’animo verso l’uomo che per primo gli aveva regalato lo scudetto nel 2012.
Ve lo dico io: dal maggio del 2014 quando la Juve perse l’occasione di giocare allo Juventus Stadium la finale dell’Uefa Europa League con il Siviglia perché nel ritorno della semifinale in casa con il Benfica, dopo essere stata sconfitta 1-2 a Lisbona, non era riuscita a segnare manco mezzo gol ai lusitani: finì infatti 0-0 e i bianconeri furono così buttati fuori. Apriti cielo. Lo so, a Luca dispiacerà che vada oggi svelando questo retroscena, ma non ce l’ho proprio fatta a soffocarlo. Gli prometto però, anzi lo giuro, che ben altre chicche ho tenuto nel cassetto della memoria per il nostro libro di Natale. Dunque ad Agnellino già era andata parecchio di traverso l’eliminazione della Juve al primo turno della Champions per mano del Galatasaray nel gelo, il pantano e la neve di Istanbul in quel tragico dopopranzo dell’11 dicembre 2013. E non lo tenne nascosto: anzi lo fece sapere al Conte Antonio dai suoi caddie tra i quali, oltre a Nedved e Paratici, che gli fanno compagnia sui green e i fairway dei Roveri, c’era anche Beppe Marotta del cui allontanamento dalla Juventus ci sarebbe pure da scrivere un capitolo. Ma un’altra volta. Ora penso che Parrucchino l’abbiate cominciato a conoscere: il primo anno è un ottimo allenatore, per me tra i tre migliori d’Italia, dopo Max Allegri e il terzo sceglietelo voi a piacimento. Basta che non sia il Benzinaio di Figline Valdarno. Mentre già al secondo anno comincia a diventare insopportabile, e sta sulle palle penso persino a sua moglie, soprattutto se non ha vinto il campionato precedente. E difatti lo Zhang l’avrebbe volentieri già l’estate scorsa spedito via dall’Inter a calci sul sedere se avesse ancora potuto spendere e spandere. E invece il regime, che in Cina non scherza, gli ha proibito d’esportare altri ingenti capitali all’estero e quindi il 40esimo uomo più ricco della Cina e il 102esimo della terra secondo la rivista Forbes non ha potuto sganciare una cinquantina di milioni d’euro, caramelle, per liberarsi (molto volentieri) dell’Andonio che quando perde non sa perdere e perde proprio la testa avendo già perso tutti i capelli. Come è successo martedì in Coppa Italia, ma anche mille altre volte come tre settimane fa nel dopo partita di Udine. Quando per uno 0-0 che non gli era piaciuto, se la prese con l’arbitro di turno e si beccò un paio di giornate di squalifica…
Stavolta s’è infuriato che non erano neanche passati dieci minuti dal fischio d’inizio del povero Maurizio Mariani di Aprilia che secondo lui non aveva visto un rigore in area bianconera di Bernardeschi ai danni di Lautaro. In verità era stato il Toro argentino (scornato) a colpire il (penoso) numero 33 di Andrea Pirlo e poi anche il prato dal quale aveva pure sollevato una zolla. Pare a quel punto che dall’altra panchina abbia cominciato per primo Leo Bonucci a rimbrottarlo e successivamente a canzonarlo dopo che Conte aveva alzato il dito medio con la falangetta all’insù e l’unghia in bella mostra. Scrivo “pare” perché poco i niente ci è stato raccontato dagli inviati della Rai che erano almeno cinque o sei, dei quali un paio a bordo campo, che forse si erano addormentati per quel duello poco rusticano e senza tiri in porta, a parte le tre sparate di Ronaldo. O forse hanno preferito, come temo, narrarci le solite banalità come la posizione in campo di Barella che a destra è raddoppiato da Hakimi. Ma va? Lo sanno anche i miei nipoti, ovviamente bianconeri, che l’Inter dell’Antonio da Lecce attacca solo in quel modo e che solo Pirlo, a volte più pirla che distratto, ha ai due migliori nerazzurri opposto in campionato a gennaio Frabotta, e sono stati dolori lancinanti, e l’altra sera Bernardeschi che è stato appena meglio, ma lo stesso ben sotto la sufficienza in pagella. Anche di questo sarebbe bello un giorno parlare. E cioè di questo calcio apatico, spento, moscio, surreale, senza gente e senza salvagente al quale aggrapparsi per non sprofondare in un sonno molto profondo. Col Var che allunga i tempi di uno spettacolo che ormai non soddisfa più nessuno e al massimo t’incuriosisce per le voci e le grida sguaiate degli attori che non hanno ancora ben afferrato, povere stelle, che tutti sentono quello che dicono in campo e nei dintorni. Comprese le fastidiose bestemmie di Buffon e non solo, anche Ivan Juric sacramenta spesso e volentieri, ma i telecronisti (pure di Sky, non pensino) e i loro sottopancia al massimo ci raccontano che Pirlo si raccomanda con i suoi giocatori di far girare la palla il più velocemente possibile e altro non grida da fine settembre a tutt’oggi. E io pago…
Eppure al mondo intero non era sfuggito di vedere in diretta tivù un secondo dopo il triplice fischio di Mariani l’Andrea Agnelli scattare in piedi indiavolato e precipitarsi di corsa giù per i gradini della tribuna d’onore verso quella dell’Inter rinunciando persino ad andare ad abbracciare Paratici e Nedved. Perché tanta fretta? Dove corri? Dove vai? Si sarebbe chiesto anche Edoardo Bennato? O gli scappava forse la pipì? Questo magari devono aver forse pensato Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro, buono per tutte le televisioni. I quali infatti hanno solamente sottolineato quanto fossero felici i dirigenti bianconeri per quel pietoso 0-0 nel corso del quale Gigi Buffon, anche se fosse rimasto a casa con la sua bella Ilaria D’Amico, pure lei nullafacente, sarebbe stato quasi lo stesso. A parte un paio di uscite per andare a comprare le sigarette dal vicino tabaccaio. E invece stava per scoppiare il fatto del giorno. Che dico? Del secolo. Perché nella storia della grande e sacra famiglia Agnelli mai nessun suo rampollo in passato, e un’ora e mezza prima dello scoccare della mezzanotte del 9 febbraio 2021, aveva osato zittire in malo modo l’avversario arrivando a dargli pure del “coglione” patentato. Un evento che non è stato subito capito neanche dai giornaloni, come li chiama Marco Travaglio, ovvero quelli che sostengono il governo Draghi o, meglio, del Bunga Bunga con Carfagna, Gelmini e Brunetta. Povera Italia. Eccezion fatta per i tre sportivi, soprattutto Tuttosport, che hanno invece cavalcato subito l’onda. A conferma che pure questo pomposo neo-giornalismo della cosiddetta carta stampata è diventato povero d’idee e d’attenzioni al pari di quello televisivo che vegeta ora mai nella ruotine di tutti i giorni senza lampi di fantasia e di curiosità. Giovedì, ad onor del vero, cioè con ventiquattro di ritardo, anche i giornaloni si sono svegliati e hanno ovviamente gridato allo scandalo prendendo le parti o dell’Inter e della Juventus come in un ennesimo show politico tra destra e sinistra dove è scontatissimo quello che l’una dirà all’altra. E così si sono di nuovo persi in discorsi che non hanno però centrato il cuore dell’inedita lite tra un Agnelli ed un suo (ex) sottopancia che pure al giovin Andrea aveva regalato tre scudetti uno dopo l’altro. Magari sostenendo che con l’Avvocato queste baruffe chioggiotte non sarebbero mai scoppiate. O che non è nello stile della Signora scivolare tanto in basso. Dio, che palle! Provate piuttosto a rovesciare la faccia della medaglia cominciando a chiedervi se in passato per esempio qualcuno abbia osato permettersi d’alzare non dico il dito medio in faccia all’Avvocato ma soltanto il tono della voce davanti a lui. Non ho ricordi…
E non sto nemmeno scherzando se adesso sostengo che per me Andrea Agnelli mai è stato meraviglioso come in questa occasione. Finalmente vero, sincero, umano sino in fondo. E contento solo quando non si è tolto quel grosso peso che si portava nello stomaco da un sacco di tempo. E non dalla sera del 15 luglio 2014 come vi hanno in molti raccontato. Quando il Conte Antonio, al secondo giorno di ritiro, dopo un’estate di gelo con la società bianconera, si prese il lusso di sbattere la porta in faccia ad Agnelli credendo di dargli chissà quale dispiacere. Al contrario era proprio quello che Andrea andava sperando che potesse accadere dal momento che temeva che Acciuga Allegri gli potesse sfuggire di mano e non vincere altri cinque scudetti consecutivi, oltre a quattro Coppe Italia che la Juve non conquistava dal secolo passato (1995), più due finali di Champions perse con il Barcellona di Leo Messi e il Real Madrid di Cristiano Ronaldo. Tanta roba. Non sono dunque ingrati gli Agnelli e non lo è stato nemmeno stavolta Andrea. Semmai, quando se la legano al dito, difficilmente perdonano e così si è comportato il presidente della Juventus dando lustro a tutta la famiglia non meno permalosa di lui. Bisogna scavare nelle notizie andando oltre quello che è sotto agli occhi di tutti: questo mi aveva insegnato Guglielmo Zucconi, direttore del grande Giorno dei Brera, Signori, Fossati e Clerici. E questo il vostro pennivendolo vorrebbe, concludendo, perché l’ho fatta anche sin troppo lunga, inculcarvi nella zucca. Ovvero che la Real Casa Sabauda non s’era offesa perché il Conte Antonio si era licenziato rinunciando ad un lauto stipendio, ma perché quel Conte da Lecce aveva osato dichiarare, dopo aver perso oltre all’Europa League anche la Coppa Italia ostinatamente preferendo inseguire il record in campionato con lo scudetto a quota 102 e cioè con gli inutili 17 punti in più sulla Roma (seconda) e i 42 (sic!) sull’Inter (quinta): “Non si può pretendere, né chiedere di vincere anche la Champions se ad un ristorante di lusso ordini caviale e champagne e hai solo dieci euro in tasca e non cento”. Insomma diede dei “pezzenti” agli Agnelli. E lui, sei anni e mezzo dopo, si è preso da un Agnelli del “coglione” fuori dai denti. Imparando magari che la vendetta è un piatto molto meno costoso perché si può mangiare anche freddo in una tiepida notte di febbraio nell’Allianz Stadium di Torino senza pubblico. Con qualcuno che ha dato cinque in pagella a Ronaldo e un altro sette. E chi se ne importa. Non è questo che conta nella vita. Mentre davvero chiudo dicendo che ancora mi vien da sorridere pensando che a suo tempo la Gazzetta di Cairo, che crede di saper tutto di calcio-mercato e invece non sa un bel niente, andò avanti per mesi a sostenere l’ipotesi che la Juve avrebbe preso Conte per sostituire Allegri. Come no? Robe da non credere.